04/12/2017 – Analisi delle linee guida UE sul fenomeno del ‘dual quality standard’
I consumatori e i governi di alcuni Stati membri dell’Unione Europea (guidati in particolare da rappresentanti della Slovacchia e della Repubblica Ceca) si sono lamentati del fatto che la qualità di certi prodotti è più bassa nel loro paese rispetto a quella dei prodotti della stessa marca venduti oltre frontiera.
Il principio della libera circolazione delle merci, infatti, non prevede necessariamente che ogni prodotto debba essere identico in tutto il Mercato Unico. Così come i consumatori sono liberi di scegliere quali prodotti comprare, gli operatori sono liberi di commercializzare e vendere beni con diverse composizioni e caratteristiche, purché conformi alle disposizioni europee rilevanti (norme sulla sicurezza dei prodotti, sull’etichettatura, o altre norme orizzontali o verticali). Anche i prodotti con lo stesso marchio possono avere differenti caratteristiche, dovute ad esempio al luogo di produzione, alle preferenze dei consumatori o alle variazioni di prezzo nel mercato di riferimento.
Ad ogni modo, ciò che può destare preoccupazione è l’ipotesi in cui beni con identico marchio ma differenti composizioni siano commercializzati in maniera potenzialmente ingannevole per i consumatori.
La questione della differenza qualitativa dei prodotti alimentari è fonte di crescenti preoccupazioni; come chiaramente evidenziato dal Presidente Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione, non possono esserci consumatori di seconda classe in un’Unione di eguali e non può essere accettabile che “in alcune parti dell’Europa vengano venduti prodotti alimentari di qualità inferiore rispetto a quella di altri paesi, nonostante la confezione e il marchio siano identici”.
La Commissione Europea ha intrapreso una serie di azioni per fronteggiare il problema della differenza qualitativa dei prodotti, unendo il dialogo con le parti coinvolte ad iniziative pratiche per autorizzare l’adozione di misure concrete da parte delle competenti autorità.
In quest’ottica, la Commissione ha adottato delle Linee guida per aiutare le autorità nazionali a una migliore applicazione del diritto alimentare europeo e dei consumatori e per identificare e affrontare pratiche ingiustificate di differenziazione di qualità dei prodotti.
Infatti, diverse disposizioni del diritto europeo già vigenti possono essere applicate per fronteggiare il problema della differenza di qualità dei prodotti.
Le linee guida pubblicate elencano e spiegano le disposizioni rilevanti di diritto alimentare europeo e diritto europeo dei consumatori a cui le autorità devono far riferimento nel trattare questioni di potenziale differenza di qualità dei prodotti alimentari.
Oltre al “Regolamento generale sulla legislazione alimentare” (Reg. CE 178/2002), che mira ad assicurare che solo prodotti alimentari sicuri siano immessi sul mercato europeo e che i consumatori siano accuratamente informati – e non ingannati – sulla composizione e le caratteristiche dei prodotti alimentari posti in vendita, gli altri principi rilevanti in materia sono stabiliti da:
- il ‘regolamento relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori’ – Reg. UE 1169/2011 – che stabilisce le regole e i requisiti generali di etichettatura, tra cui l’indicazione obbligatoria di una lista completa degli ingredienti che permetta ai consumatori di essere pienamente informati sulla composizione dei prodotti alimentari;
- la ‘direttiva sulle pratiche commerciali sleali’ – Dir. 2005/29/UE – che vieta le pratiche commerciali sleali, e può essere applicata a pratiche quali la commercializzazione di prodotti della stessa marca con modalità che potrebbero ingannare il consumatore.
Basandosi sulla legislazione menzionata, le linee guida stabiliscono un approccio step-by-step, per il consumatore nazionale e per le autorità, per identificare eventuali inadempimenti della legislazione rilevante da parte dei produttori.
Comprendere se una pratica commerciale è sleale e viola le disposizioni della Dir. 2005/29/CE richiede una valutazione caso per caso.
La commercializzazione di beni con la stessa marca e lo stesso packaging, ma con differente composizione e profilo sensoriale, può risultare contraria ai principi della direttiva sulle pratiche commerciali sleali se è dimostrato, nel caso specifico, che:
- i consumatori hanno un’aspettativa specifica legittima che deriva dal prodotto rispetto a un “prodotto di riferimento”, ma il prodotto disattende significativamente tale aspettativa;
- il commerciante omette di comunicare, o comunica in maniera errata, adeguate informazioni ai consumatori ed essi non sono in grado di realizzare l’eventualità che possa esistere una discrepanza con le loro aspettative sul prodotto;li
- l’inadeguata o insufficiente informazione è in grado di alterare il comportamento economico di un consumatore medio, ad esempio portandolo a comprare un prodotto che non avrebbe altrimenti comprato.
Per la valutazione delle potenziali pratiche sleali, le Linee guida forniscono il seguente albero decisionale:
Le autorità competenti del settore alimentare sono tenute ad assicurarsi che le imprese rispettino la legislazione europea di settore. Ad ogni modo, posto che la problematica in questione riguarda pratiche transfrontaliere degli operatori del settore alimentare che operano nel Mercato Unico, le autorità competenti dovrebbero cercare di condurre le loro attività investigative in maniera coordinata, sfruttando gli strumenti del Reg. 2004/2006 sulla Cooperazione per la tutela dei consumatori.
La Commissione europea si impegna ad aiutare le autorità nazionali – in aggiunta all’adozione delle Linee guida – attraverso una serie di altre azioni.
Essa sta lavorando ad una metodologia finalizzata a migliorare le prove comparative sui prodotti alimentari in modo da consentire agli Stati membri di discutere della questione sulla scorta di una base scientifica solida e condivisa che sia la stessa per tutti. La Commissione ha messo a disposizione del Centro comune di ricerca (JRC) 1 milione di euro per lo sviluppo di tale metodologia.
La Commissione sta inoltre finanziando ulteriori attività che riguardano la raccolta di prove e la vigilanza sull’applicazione delle norme, con l’erogazione agli Stati membri di 1 milione di euro per il finanziamento di studi o di misure volte a garantire l’applicazione delle norme.
La Commissione ha avviato un dialogo con le associazioni di produttori e di marchi, che si sono impegnate a elaborare un “codice di condotta” entro l’autunno.
Inoltre, la Commissione organizzerà seminari ed incontri con le autorità responsabili della tutela dei consumatori e della sicurezza alimentare.
Di seguito alcune personali osservazioni:
- l’intento della Commissione, pur legittimo, rischia di essere vanificato e di suscitare preoccupazioni a causa delle diverse interpretazioni che si creeranno nei diversi Stati membri: già sappiamo che un’applicazione coerente ed uniforme della legislazione europea è una delle maggiori sfide del mercato unico, in più ritengo sia ancora più problematico fondare un’azione su concetti di ampia interpretazione quali “legittime aspettative dei consumatori”, “informazioni adeguate”, “alterare il comportamento del consumatore” e “consumatore medio”. Solo il tempo potrà confermare se le nuove linee guida si riveleranno uno strumento utile per un’applicazione uniforme delle norme, e la casistica giurisprudenziale nazionale ed europea avrà il compito di aiutare a definire tali concetti.
Fino ad allora – a parte i casi di comportamenti palesemente sleali – la prova di una pratica commerciale scorretta o ingannevole in questo contesto ci pare avvicinarsi a quella che in latino è nota come “probatio diabolica”: come si possono provare i requisiti suggeriti dalle linee guida? Anche il collegamento del concetto di “informazioni adeguate” con il rispetto dei principi del Reg. 1169/2011 sulle informazioni ai consumatori non ci sembra essere sufficiente per assolvere a tale prova…e cosa dire degli altri concetti – oggetto di dibattito da decenni – quali il “consumatore medio”?
- Nelle linee guida della Commissione non ci sembra sia stato dato sufficiente peso alla questione dei prezzi (anche se il prezzo è stato menzionato tra le ragioni che portano a variazioni della ricetta). Cosa fare con i paesi in cui i cittadini hanno redditi disponibili molto bassi? E’ meglio fornire loro prodotti differenti o non fornirne affatto perché il prezzo che andrebbero a pagare non copre i costi di produzione? Ci pare che questa seconda opzione finisca per risultare ancora più classista…
- Un codice di comportamento volontario da parte delle industrie è più che benvenuto e – ancor più se discusso e concordato con Commissione europea, autorità nazionali competenti e gli altri soggetti coinvolti (ad esempio associazioni europee di consumatori) – può servire a prevenire eventuali enigmatici interrogativi da parte degli attori in gioco.
- Sviluppare una procedura analitica standard comprovata ed adeguata per tutte le categorie alimentari ci sembra molto ottimistico, mentre i finanziamenti destinati a questo scopo dalla Commissione alquanto limitati.
In conclusione, il documento pubblicato, più che risolvere problemi, ci pare possa far nascere serie criticità per le autorità nazionali, da un lato, e suscitare una strenua opposizione da parte del modo dell’industria, dall’altra.
Articolo a cura dell’Avv. Cesare Varallo.